No allo sciacallaggio sociale per un’altra via d’uscita


STOP SCIACALLAGGIO SOCIALE PER UN’ALTRA VIA D’USCITA

Giù le mani delle nostre terre

Aumenta, nelle campagne e in tutto il Paese, la povertà ed aumenta il divario fra quanti accumulano risorse e ricchezze e quanti pagano i prezzi della crisi.

Per descrivere la natura della povertà oggi in Italia, basta leggere il dossier della Campagna di LIbera e del Gruppo Abele “Miseria Ladra“, che racconta con i numeri la crudezza della situazione oppure visitare le pagine pubblicate dall’Espresso con la mappatura della povertà in Italia.

Una crisi che, dal nostro punto di vista è sempre più strutturale e si configura tanto di lungo periodo da essere permanente, quasi un carattere costitutivo di una nuova fase che mette in discussione conquiste e sicurezze e ridefinisce i rapporti e la composizione sociale nel nostro Paese; la crisi, cosi, è funzionale ad un feroce processo di spoliazione di diritti e accumulazione di poteri economici, politici e sociali.
La povertà diventa la condizione per alimentare e giustificare una enorme operazione di saccheggio e di esproprio di risorse, beni e diritti individuali e collettivi.
Questa condizione è, evidentemente, effetto diretto delle scelte e del modello di società che esce dall’impatto del Paese con la trasformazione imposta dalla globalizzazione che, campagne e nelle aree rurali,  ha colpito ben prima di quanto non fosse evidente nel resto della società italiana.
Nel silenzio dell’informazione e dei mezzi di comunicazione, per troppo tempo ed ancora largamente subalterni all’idea di un’agricoltura delle sagre e delle nicchie ed alla demagogia del “made in Italy” che tira (per chi? per i nuovi padroni delle filiere commerciali e speculative?) e nella disattenzione di un’opinione pubblica indotta a considerare la “questione agricola” come questione arretrata e marginale, i processi che a partire dagli anni 80 hanno investito violentemente le campagne italiane ci consegnano oggi un quadro pesantissimo; perdita della capacità produttiva del Paese, chiusura delle aziende e delle attività agricole, accumulazione del valore aggiunto prodotto nelle filiere agroalimentari nelle mani della finanza e della grande distribuzione,  impoverimento e di desertificazione delle aree rurali: sono, purtroppo, immagini sempre più evidenti che costringono a nuove consapevolezza.

 Da quindici anni denunciamo i rischi di trovarci in questa condizione come, solo a titolo di esempio, testimonia il documento presentato al Parlamento nel 2006 e che fu la base di anni di mobilitazioni in Italia, nostre e di tanti altri. Quindici anni di iniziative, denunce, critiche che non sono in realtà servite a costringere chi doveva vedere a guardare in faccia la realtà: abbiamo per lungo tempo dovuto sopportare dai teorici della competizione sul mercato come palingenesi della modernità e del benessere l’accusa di catastrofismo e di strumentalizzazione.

 Dopo aver perso la metà della nostra capacità produttiva in termini di imprese e salariati (registrando la trasformazione reale da Paese con un grande patrimonio di produzione del cibo verso un Paese grande piattaforma commerciale) ed aver progressivamente registrato lo spopolamento delle attività di cura del territorio rurale garantito da generazioni di agricoltori, i dati degli ultimi due anni sulla povertà rurale messi in evidenza dall’Eurispes sono impressionanti. Sono quasi un milione i poveri in agricoltura: il 10% delle famiglie agricole si trovano al di sotto della soglia assoluta di povertà: 7.500 euro annui, pari a 20 euro al giorno o, se si preferisce, 600 euro al mese. La stima, comprensiva di uomini, donne e bambini, emerge  dal Rapporto di Eurispes servizi: “La povertà in agricoltura. Una mappa del rischio e del disagio rurale in Italia”. Ma se questo reddito, già di per sè insufficiente per una persona sola, deve poi essere diviso in due o in tre, poichè la famiglia non è mononucleare, la condizione diventa drammatica.

 Il 30 ottobre 2014 il Presidente Eurispes, a commento dei dati resi noti dal suo Istituto, dichiara: “I dati diffusi oggi dall’Istat che segnalano come il 28% degli italiani siano a rischio di povertà confermano le tesi sostenute dall’Eurispes quando affermava che la nostra è ormai la società dei 3/3: un terzo di poveri tradizionali; un terzo di quelli che l’Istituto definisce “garantiti e blindati”; un terzo, appunto, a rischio di povertà costituito da ceti medi ormai sulla via della pauperizzazione.  I profeti della cosiddetta “società affluente”, negli anni Sessanta del secolo scorso ci avevano rassicurati descrivendo la nostra come una società dei 2/3. Ovvero una società nella quale 2/3 della popolazione hanno raggiunto un soddisfacente livello di benessere mentre il rimanente terzo è costretto alla povertà e al disagio. I risultati, non sono stati quelli che le previsioni ci avevano assicurato; anzi, l’area della povertà non solo non è stata ridotta ma al contrario tende ad allargarsi a macchia d’olio, coinvolgendo strati sempre più ampi della società e mettendo a rischio le stesse conquiste faticosamente conseguite dal dopoguerra ad oggi….“.

Questo giudizio del Presidente dell’Eurispes sembra fotografare drammaticamente la situazione nelle campagne italiane. Qui, intorno agli anni ’80, è avvenuta una grande operazione di investimento finanziario da parte delle famiglie agricole del Paese sulla base del convincimento, indotto e propagandato dalle classi dirigenti nazionali, che l’apertura dei mercati, la liberalizzazione, l’eliminazione della funzione del pubblico avrebbero portato benessere e ricchezza a condizione che gli agricoltori diventassero “imprenditori” trasformando le aziende in imprese.

La natura dell’imprenditore è intimamente legata al rischio che assume di investire i capitali. E’ accaduto, cosi, che una intera generazione di agricoltori si è indebitata portando a garanzia i patrimoni accumulati dalle generazioni precedenti (padri, nonni…) sulla base dell’idea del risparmio contadino e della prudenza per sostenere investimenti in ammodernamento di processo e di prodotto. Per circa quindici anni le campagne italiane hanno conosciuto una fase di profonda trasformazione verso modelli di produzione intensiva “moderni”, soprattutto nelle aree di piana dell’ortofrutta o dell’allevamento.

A fronte di una impennata di modelli agricoli spinti ed “industriali” che spesso hanno provocato un impatto insostenibile con il territorio, la realtà che le famiglie agricole hanno dovuto registrare nei decenni successivi ha, però, disvelato la realtà: crollo dei prezzi agricoli al campo, aumento vertiginoso dei costi produttivi, smantellamento della rete di servizi e un uso dei sostegni economici che (escludendo i più) hanno solo narcotizzato e camuffato la realtà.
Il rischio di impresa si è trasformato cosi nell’incubo di un insostenibile indebitamento che mette in discussione i capitali investiti e i capitali, in agricoltura, sono le terre, i mezzi di produzione e le proprietà e gli immobili di abitazione.

Pur nella complessità di lettura sui dati dell’indebitamento agricolo, osservando solo l’andamento degli ultimi anni dell’indebitamento agrario del settore primario non si può che essere allarmati dai dati: Fra tutti è indicativo il dato delle sofferenza bancarie che in agricoltura sono mediamente più alte che negli altri settori produttivi.  Nel settore agricolo le sofferenze registrate nel 2013 riguardano 15.692 imprese agricole per un ammontare di 3,85 miliardi di euro, ovvero mediamente circa 245mila euro di fido a sofferenza per ciascuna azienda agricole, con una incidenza di incremento delle sofferenze che sfiora il 18 per cento ed in costante aumento. 

L’indebitamento delle famiglie agricole e il loro impoverimento sta diventando, cosi, il bacino “naturale” per nuove speculazioni per quanti agiscono nel tentativo di mettere mano con poca fatica ed investimento ai beni e le proprietà accumulate in generazioni di lavoro e in vite di impegno di intere famiglie. Usura, vendite all’asta e nuove forme di controllo esterno sulle aziende agricole sono solo una parte delle variabili con cui sono aggrediti i patrimoni delle famiglie agricole che, nella fase della globalizzazione dei mercati sono sempre meno capaci di controllare le filiere agroalimentari.

L’internazionalizzazione dei mercati, la perdita del rapporto con il territorio del ciclo produzione/vendita conferisce a chi ha la capacità e i mezzi di gestire la commercializzazione nuove e inedite leve per controllare il mercato e accumulare valore aggiunto. Nel giro di venti anni la Commercializzazione (la GdO ma anche i grandi trust dell’intermediazione commerciale) hanno raddoppiato la loro quota di valore aggiunto accumulato mentre i produttori e i trasformatori lo hanno dimezzato. 

La doppia tenaglia dell’usura (che interviene in forme sempre più sofisticate) e delle procedure esecutive, che sempre più spesso si intrecciano, espone una parte considerevole delle famiglie agricole italiane (soprattutto quelle che hanno realizzato investimenti produttivi nei decenni scorsi lasciando esposte a pericolose speculazioni le aree di quelle che una volta era considerata “l’agricoltura forte italiana”.

Speculazioni che non colpiscono solo i patrimoni diretti delle aziende e delle famiglie agricole indebitate  ma espongono le comunità a gravi rischi: un territorio desertificato dalle attività di cura garantite per secoli dalle famiglie rurali è un territorio esposto ad usi “socialmente ed ambientalmente pericolosi”: discariche (più o meno abusive), produzione di agroenergie, cementificazione ovvero ad un uso molto più redditivo che non la produzione di cibo.

 


 

 

 

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